La terapia medica dell’osteoporosi ha, come obiettivo principale, la riduzione del rischio di frattura. Obiettivi secondari sono la riparazione dei danni microstrutturali e il ripristino della normale architettura scheletrica. Nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto al 100%. Per raggiungerli, si hanno a disposizione numerosi farmaci testati in trials clinici internazionali che hanno coinvolto migliaia di pazienti e che forniscono le indicazioni più precise sulla loro efficacia. Essi tuttavia sono stati effettuati per una durata massima di 5-7 anni, insufficiente per valutare il reale effetto di una cura che, teoricamente, dovrebbe durare tutta la vita. Pertanto, le notizie che ci vengono dall’analisi dei trials clinici sono incomplete e, spesso, non applicabili a molti pazienti trattati nella reale pratica clinica, a causa delle limitazioni imposte dai numerosi criteri di esclusione adottati.
I farmaci utilizzati per la terapia dell’osteoporosi possono essere classificati in 2 grandi categorie:
- inibitori del riassorbimento osseo
- stimolatori della formazione ossea.
Alla prima categoria appartengono gli estrogeni ed i SERMs, la calcitonina, i bisfosfonati, alla seconda, il teriparatide e l’ormone paratiroideo 1-84. Il ranelato di stronzio presenta a tutt’oggi un meccanismo d’azione non ben definito.
Gli inibitori del riassorbimento osseo sono in grado di ridurre significativamente il rischio di frattura ed il turnover osseo e di aumentare la densità minerale ossea (BMD); non sono invece in grado di aumentare la massa ossea e di migliorare la microarchitettura scheletrica.
Gli stimolatori dell’osteoformazione, riducono , al pari dei precedenti, il rischio di frattura, aumentano il turnover osseo e la BMD, ma al contrario degli inibitori del riassorbimento, sono in grado di aumentare la massa ossea e di migliorare la microarchitettura scheletrica.
La tabella 1 mostra l’effetto dei vari farmaci, inibitori o stimolatori del turnover osseo, rilevato durante i differenti trial clinici registrativi. Come si può notare tutti i farmaci impiegati sono capaci di ridurre significativamente l’incidenza di fratture vertebrali e la maggior parte di essi è in grado di diminuire l’incidenza delle fratture non vertebrali e di femore. In alcuni casi l’azione si evidenzia solo quando viene trattata la popolazione più a rischio (ibandronato). Molti trial clinici hanno preso in considerazione pazienti con BMD basso e precedenti fratture da fragilità e pazienti con sola osteoporosi densitometrica , ma senza fratture, altri invece, non hanno considerato pazienti senza fratture vertebrali pregresse (NA).
Tabella 1: effetto dei vari farmaci sul rischio di fratture osteoporotiche in popolazioni a rischio comprendenti pazienti con osteoporosi densitometrica (T-score < -2.5), con e senza fratture vertebrali pregresse. (+ = riduzione significativa dell’incidenza di fratture; NA = not ossesse; Subset: efficacia presente in una sottopopolazione di pazienti a maggior rischio di frattura; femore: efficacia presente anche sulle sole fratture del femore prossimale)
Fratture vertebrali | Fratture non vertebrali | |||
osteoporosi | osteoporosi e fratture vertebrali | osteoporosi | osteoporosi e fratture vertebrali | |
Alendronato | + | + | NA | + (femore) |
Risedronato | + | + | NA | + femore |
Ibandronato | NA | + | NA | + (subset) |
Acido zoledronico | + | + | NA | + |
HRT | + | + | + | + |
Raloxifene | + | + | NA | NA |
Teriparatide e PTH | NA | + | NA | + |
Ranelato di Stronzio | + | + | + (femore) | + (femore) |
Kanis JA et al. Osteoporos Int. 2008;19:399-428, mod
Calcio e vitamina D
Un adeguato introito di calcio e vitamina D è necessario per ottenere il massimo effetto dalle classiche terapie per l’osteoporosi. Nelle donne in post-menopausa e nell’uomo anziano, il fabbisogno giornaliero di calcio necessario per mantenere un bilancio calcico in pareggio si aggira attorno a 1 – 1,5 gr. Tale fabbisogno può essere raggiunto con un adeguato apporto alimentare o con una supplementazione farmacologica.
Il calcio somministrato con la dieta, essendo frazionato nel corso della giornata e non raggiungendo praticamente mai concentrazioni intraluminali tali da consentire un trasporto passivo attraverso le gap junction fra le cellule intestinali, è quasi completamente assorbito tramite un meccanismo attivo vitamina D-dipendente a livello duodeno-digiunale. Questo permette all’organismo di regolare finemente la quantità assorbita a seconda delle sue necessità, a patto che vi sia un’adeguata disponibilità di vitamina D. La somministrazione farmacologica di calcio per boli orali di 500 – 1000 mg, consente anche l’assorbimento passivo del calcio per gradiente di concentrazione attraverso la barriera intestinale, indipendentemente dai livelli di vitamina D. In questo modo si riversano nel torrente circolatorio quantità elevate e non regolamentate di calcio, diminuendo la secrezione paratiroidea e aumentando le perdite renali. La somministrazione farmacologica deve pertanto essere utilizzata con maggiore cautela nei individui con calcolosi renale.
Per quanto riguarda la vitamina D, data la enorme diffusione di ipovitaminosi D nei soggetti anziani (attorno al 90%) e la pressoché assente tossicità dei composti non idrossilati (colecalciferolo ed ergocalciferolo), la sua somministrazione è raccomandata in tutti gli individui untrasessantacinquenni, senza necessità di controllare i livelli basali della sostanza. Tuttavia, considerate le diverse caratteristiche individuali che riguardano il destino metabolico della vitamina D, legate all’assorbimento intestinale, alla dose somministrata, all’obesità e probabilmente anche al tipo di obesità (viscerale o sottocutanea), è opportuno, dopo alcune settimane dall’inizio della somministrazione, valutare i livelli sierici di 25 idrossicolecalciferolo (25OHD) che dovrebbero mantenersi tra 80 e 250 nmol/L. Considerata la stretta correlazione negativa fra 25OHD e PTH, un livello ottimale di vitamina D dovrebbe essere quello che mantiene i valori sierici di PTH al di sotto dei 40 pg/ml.
Negli individui giovani può essere appropriato conoscere lo stato vitaminico D, perché la sola somministrazione di calcio e vitamina D, negli individui carenti, può essere sovente la sola arma efficace per ridurre il turnover osseo e diminuire il rischio di frattura.
La vitamina D dovrebbe essere somministrata per via orale durante i pasti, ma la frequenza di somministrazione può essere del tutto arbitraria, dalla dose giornaliera alla settimanale, alle mensile, bimestrale, semestrale o annuale. Dopo la somministrazione di un bolo di 300.000 UI il picco viene raggiunto dopo 1 settimana e si mantiene per circa 3-4 mesi. Negli individui carenti di vitamina, pertanto, è consigliabile iniziare con un bolo di quantità elevate (100.000 o 300.000 UI) seguito dalla somministrazione settimanale di 5000 – 7000 UI, per mantenere costanti gli alti livelli sierici della sostanza. La somministrazione di 10.000 UI al giorno non determina alcun effetto collaterale, e qualche sporadico caso di lieve ipercalcemia è stato segnalato con 40.000 UI al giorno. Non si conoscono i livelli tossici di vitamina D, verosimilmente molto superiori alle dosi sopra menzionate.
La somministrazione combinata di vitamina D e calcio è in grado di ridurre significativamente il rischio di frattura, a patto che la compliance non sia inferiore al 75-80%.
Selective estrogen-receptor modulators (SERMs)
I SERMs sono composti capaci di legarsi ai recettori per gli estrogeni e di agire come agonisti o antagonisti degli estroni a seconda del tessuto bersaglio. La prima osservazione che il tamoxifene, somministrato come terapia coadiuvante nel carcinoma della mammella, era in grado di ridurre la perdita ossea nelle donne in post-menopausa ha dato il via ad una serie di ricerche che hanno portato alla sintesi di numerose molecole in grado di agire come antagonisti degli estrogeni a livello mammario ed agonisti a livello osseo. Il raloxifene è, al momento attuale, l’unico utilizzato clinicamente su larga scala. Esso è in grado di ridurre l’incidenza di fratture vertebrali del 30-50% nelle donne in post-menopausa con osteoporosi, con o senza fratture prevalenti da fragilità. Non è stata invece osservata alcuna riduzione significativa delle fratture non vertebrali e delle fratture di anca. Tale riduzione è invece presente e significativa in una post-hoc analisi che prendeva in considerazione donne con osteoporosi complicata da fratture vertebrali severe ( e quindi ad elevato rischio di ulteriori fratture da fragilità).
Contemporaneamente all’effetto favorevole sull’osso, si è notato una significativa riduzione (- 60% circa) dell’incidenza di tumori mammari.
La somministrazione di raloxifene non ha influenza sulla mortalità da eventi cardiovascolari.
L’unico effetto collaterale significativo della somministrazione di SERMs è rappresentato dall’aumentata incidenza di trombosi venosa profonda, al pari degli estrogeni.
Bisfosfonati
I bisfosfonati sono analoghi del pirofosfato nel quali l’atomo di ossigeno P-O-P viene sostituito da un atomo di carbonio P-C-P, che rende il prodotto molto più resistente all’idrolisi enzimatica.
I bisfosfonati hanno una elevata affinità per i cristalli di idrossiapatite e, ad alte, dosi, impediscono la precipitazione dei sali di calcio. Questa proprietà è stata la causa del loro primo impiego, impedendo la precipitazione di calcio nei tubi dell’acqua. Ben presto tuttavia è stata riconosciuta la loro spiccata capacità di inibire il riassorbimento osseo, riducendo il reclutamento e l’attività degli osteoclasti, dei quali aumentavano l’apoptosi. L’effetto inibitorio sulla precipitazione dei cristalli di idrossiapatite, che contrastava l’effetto favorevole antiriassorbitore, favorendo la comparsa di osteomalacia, dipendeva esclusivamente dalla quantità dei bisfosfonati in circolo, per cui si sono sviluppate numerose linee di ricerca, nell’intento di sintetizzare bisfosfonati che presentassero una elevata attività antiriassorbitiva con minime quantità di sostanza. I numerosi bisfosfonati proposti per uso terapeutico variano in potenza di 10.000 volte, cosicché le dosi richiesti per ottenere un buon effetto farmacologico variano notevolmente.
Figura 1: I bisfosfonati si dividono in 2 grandi categorie: alla prima appartengono quelli che non contengono azoto nella loro molecola; alla seconda i bisfosfonati di più recente sintesi, che contengono azoto, sia sotto forma di composti alchilici, sia inserito in anelli eterociclici.
Tutti i bisfosfonati, se somministrati per via orale, presentano un assorbimento intestinale molto basso, dell’ordine dello 0.5 – 2 %, che si riduce notevolmente in presenza di cibo nello stomaco, fino ad azzerarsi completamente in presenza di sali di calcio. Per questo motivo ne viene raccomandata l’assunzione a digiuno, almeno 30 minuti prima dell’ingestione di qualsiasi altra sostanza, con abbondante quantità di acqua oligominerale, per facilitarne il transito esofageo. Essendo sostanze acide, il contatto con la mucosa orale o faringo-esofagea può causare la comparsa di lesioni ulcerative.
Il meccanismo d’azione dei bisfosfonati è duplice. I bisfosfonati di prima generazione (non contenenti azoto) determinano, all’interno dell’osteoclasta, la formazione di un ATP tossico che uccide rapidamente la cellula, alterandone il citoscheletro e il ruffled border. I bisfosfonati contenenti azoto (aminobisfosfonati e bisfosfonati contenenti azoto semplice, non inserito in gruppi aminici) sono i più potenti ed agiscono a valle della via del mevalonato, inibendo la prenilazione proteica, essenziale per i processi vitali dell’osteoclasta, che quindi va in precoce apoptosi.
Figura 2: I bisfosfonati contenenti azoto agiscono inibendo l’azione della farnesil-pirofosfato-sintetasi, con blocco della produzione di farnesilpirofosfato, necessario per la prenilazione delle proteine cellulari, con conseguente precoce apoptosi cellulare.
Una volta giunti nel torrente circolatorio vengono assorbiti nell’osso in misura proporzionale al turnover scheletrico, in genere dal 20 al 50 %, ed il resto viene eliminato per via renale.
L’alendronato (70 mg settimanali), il risedronato (35 mg settimanali o 150 mg mensili) e l’ibandronato (150 mg mensili) sono i bisfosfonati più usati per via orale, mentre il clodronato, il neridronato, lo zoledronato e l’ibandronato vengono somministrati prevalentemente, se non esclusivamente (zoledronato), per via parenterale.
Nello studio FIT l’alendronato riduce significativamente l’incidenza di fratture vertebrali e non vertebrali e di anca di circa il 50 %. Nelle donne con osteoporosi, ma senza fratture vertebrali prevalenti, la riduzione delle fratture cliniche non raggiunge la significatività statistica, che è invece raggiunta in una sottopopolazione con un T-score al collo femorale < -2.5 DS.
Il risedronato riduce l’incidenza di fratture vertebrali e non vertebrali del 40-50% e del 30-40% rispettivamente. Nelle donne anziane il rischio di fratture di anca è ridotto del 30-40%, tuttavia tale riduzione non è significativa nelle donne con età > 80 anni senza evidenza di osteoporosi.
L’ibandronato, somministrato alla dose di 2,5 mg al giorno per via orale, riduce significativamente il rischio di fratture vertebrali (-50 – 60%), ma non quello di fratture non vertebrali. Tale effetto si evidenzia soltanto in una analisi post-hoc che prende in considerazione una popolazione di donne con T-score femorale < -3 DS. Gli studi di bridging hanno documentato che l’ibandronato, somministrato per via orale mensilmente alla dose di 150 mg, o ogni 3 mesi per via ev alla dose di 3 mg, ha un effetto pari o superiore alla somministrazione giornaliera in termini di BMD o di riduzione dei markers di rimodellamento osseo.
Lo zoledronato, alla dose di 5 mg infusi per via ev una volta ll’anno, riduce significativamente le fratture vertebrali (-70%) o di anca (-40%). E’ stato anche dimostrato che lo zoledronato, somministrato nei primi mesi dopo la frattura del femore, riduce significativamente la comparsa di ri-fratture e la mortalità nella popolazione trattata.
Il clodronato, somministrato per via orale alla dose di 800 mg/die, riduce del 46% l’incidenza di fratture vertebrali, ma non ha alcun effetto sulle fratture non vertebrali. Non vi sono studi effettuati su un congruo numero di pazienti che dimostrino l’efficacia del clodronato somministrato per via intramuscolare o endovenosa.
Il neridronato è approvato per la terapia dell’osteogenesi imperfetta, ma è comunemente usato per la terapia dell’osteoporosi alla dose di 25 mg im al mese nei pazienti che non tollerano i bisfosfonati orali; non esiste tuttavia alcuna documentazione sulla sua efficacia nel ridurre l’incidenza di fratture.
Generalmente i bisfosfonati sono farmaci ben tollerati che non interferiscono con il metabolismo di altri farmaci. I disturbi più comuni, per i bisfosfonati somministrati per via orale, sono rappresentati da dolori e pirosi epigastrica e, raramente, da esofagiti. Per via endovenosa provocano nel 15-40 % dei casi una reazione di fase acuta caratterizzata da febbre, mialgie e artralgie che solitamente compaiono 1-2 giorni dopo l’iniezione e regrediscono spontaneamente dopo 2-4 giorni. Tale effetto si osserva più frequentemente dopo le prime iniezioni del farmaco e tende a scomparire dopo la 3° o 4° iniezione. La reazione di fase acuta è iniziata e mediata dalla secrezione di numerose citochine a carattere infiammatorio da parte di numerosi tipi cellulari (polimorfonucleati, fibroblasti, cellule endoteliali, monociti, linfociti, ecc.).
L’osteonecrosi della mandibola è un fenomeno descritto nei pazienti affetta da neoplasie maligne in trattamento con alte dosi di aminobisfosfonati ev. Sporadiche segnalazioni sono state fatte anche in pazienti osteoporotici trattati con alendronato o risedronato per via orale. Si tratta di una osteomielite da actinomiceti che compare in pazienti sottoposti a chirurgia maxillo-facciale o odontoiatrica, in terapia con aminobisfosfonati. L’incidenza è estremamente rara ( meno di 1 su 100.000 pazienti trattati) e sembra essere correlata alla durata della somministrazione (vari anni). Una buona igiene orale ed una terapia antibiotica con beta-lattamici da iniziare il giorno dell’intervento odontoiatrico e da proseguire per 7-10 giorni, azzerano praticamente il rischio di ONJ.
Ranelato di stronzio
Il ranelato di stronzio è stato introdotto in commercio da alcuni anni dopo che 2 studi registrativi (il TROPOS ed il SOTI) aveva dimostrato la sua efficacia nel ridurre le fratture vertebrali, non vertebrali e di femore. Il suo meccanismo d’azione non è stato ancora chiarito.
Figura 3: Concentrazioni crescenti di ranelato di stronzio in colture di monociti di sangue periferico determinano una progressiva riduzione della differenziazione osteoclastica, che si traduce in una diminuzione del numero e dell’attività degli osteoclasti stessi.
Sebbene numerosi studi in vitro abbiano documentato un’azione stimolante gli osteoblasti e inibente gli osteoclasti, i risultati clinici non sono del tutto convincenti in questo senso. Il trial pivotal pubblicato sul NEJM documenta un lieve aumento della fosfatasi alcalina ossea ed una lieve riduzione dei CTx sierici che hanno suggerito una duplice azione sul metabolismo osseo, favorevole alla crescita della massa ossea. Tuttavia, tale azione si verifica solo nei primi mesi di somministrazione del farmaco e può essere spiegata dalla modesta riduzione del PTH, accompagnata da un transitorio aumento della fosforemia e riduzione della calcemia, ben documentati nello stesso studio.
Figura 4: Concentrazioni crescenti di ranelato di Stronzio determinano un aumento della proliferazione di osteoblasti in coltura primaria ed un aumento della produzione di Osteoprotegerina (OPG) che riduce la differenziazione osteoclastica.
Gli studi condotti fino a 5 anni hanno ben documentato la significativa diminuzione dell’incidenza di fratture vertebrali e non vertebrali in pazienti trattati con ranelato di Sr appartenenti ad una larga fascia di età (numerosi gli ultraottantenni) con osteopenia ed osteoporosi, con o senza fratture vertebrali prevalenti.
Una significativa riduzione delle fratture di femore è stata dimostrata nello studio TROPOS, disegnato appositamente per avere le fratture di femore come end point primario, nel quale sono state prese in considerazione donne di età > 74 anni con BMD basso al collo femorale.
La dose raccomandata è di 2 grammi al giorno assunti in un’unica somministrazione. A causa della relativa lentezza dell’assorbimento intestinale del farmaco, ulteriormente ridotta dalla presenza di cibo, si preferisce somministrarlo alla sera prima di coricarsi, almeno 2 ore dopo cena e con un periodo di digiuno, dopo l’assunzione, prolungato per tutta la notte.
Non è stata studiata l’efficacia nel sesso maschile, pertanto non viene consigliato in questa popolazione.
I più comuni effetti collaterali sono rappresentati dalla nausea e dalla diarrea, che tendono a scomparire dopo il terzo mese di somministrazione. E’ stato inoltre segnalato un modesto aumento delle malattie trombo-emboliche, che suggerisce cautela nell’uso di questo preparato in pazienti che hanno un aumentato rischio di tale patologia.
Teriparatide e Ormone paratiroideo
L’iperparatiroidismo primario è caratterizzato solitamente da una riduzione della densità minerale ossea, che interessa in particolare la porzione corticale. Al contrario, la somministrazione intermittente (1 iniezione sottocutanea al giorno) di teriparatide (PTH 1-34) o di Paratormone intatto (PTH 1-84) determina un aumento del numero e dell’attività degli osteoblasti e favorisce quindi un aumento della massa ossea, cioè della quantità totale di tessuto osseo. Il meccanismo d’azione con cui il PTH, se somministrato in differente maniera (continuativamente nell’iperparatiroidismo primario e in modo intermittente nella somministrazione farmacologica) determina effetti metabolici diversi deve ancora essere chiarito in molti suoi aspetti. La teoria attuale è che la somministrazione continua determini un aumento della produzione di RANK-L da parte degli osteoblasti con contemporanea riduzione di Osteoprotegerina (OPG), con conseguente aumento del numero e dell’attività degli osteoclasti. In caso di somministrazione intermittente, invece, il meccanismo principale sarebbe quella di una maggiore sopravvivenza degli osteoblasti a causa di un ritardo della loro apoptosi.
Figura 4: Il microcrack rappresenta il segnale iniziale di rimodellamento osseo attraverso il quale osso neoformato sostituisce l’osso “vecchio”. La presenza di microcrack induce una rapida apoptosi degli osteociti vicini ed invia segnali all’ambiente vascolare, con fuoriuscita di monociti nel liquido interstiziale. I macrofagi-monociti sviluppano sulla loro superficie un recettore, Rank, che legandosi al suo ligando RANK-L presente sulla superficie degli osteoblasti e nel liquido interstiziale, in presenza di Macrophage Colony stimulating Factor (MCF), ne induce la differenziazione in osteoclasti maturi, capaci di riassorbire osso. Gli osteoblasti regolano la differenziazione osteoclastica mediante la sintesi di osteoprotegerina (OPG) che, legandosi al RANK, impedisce che si verifiche il legame RANK – RANK-L e la successiva differenziazione osteoclastica. Livelli di PTH costantemente elevati, come avviene nell’iperparatiroidismo primario, inibiscono la sintesi di OPG e stimolano la produzione di RANK-L. L’azione anabolica del PTH, somministrato in maniera intermittente, è invece dovuta ad un ritardo dell’apoptosi osteoblastica e, quindi, ad una più prolungata azione osteoformativa.
Al contrario dei farmaci antiriassorbitori, che determinano solo un transitorio aumento della massa ossea, dovuto al riempimento del remodeling space, i preparati anabolici determinano una aumento sostanziale della massa ossea che porta, a sua volta, ad un miglioramento della microarchitettura scheletrica, aumentando lo spessore corticale e ripristinando, almeno parzialmente, la connettività trabecolare.
La somministrazione giornaliera di teriparatide o di PTH 1-84 riduce significativamente l’incidenza di fratture vertebrali e, limitatamente a teriparatide, anche su quella delle fratture non vertebrali. Quest’ultimo effetto si mantiene anche per 30 mesi dopo la sospensione del farmaco. Durante il periodi si somministrazione dei farmaci anabolici, si assiste ad un netto aumento della densità ossea a livello vertebrale, mentre la BMD resta stabile o si riduce lievemente a livello femorale o al polso, dove la componente corticale è preminente. Ciò può essere dovuto al fatto che il PTH stimola la neoapposizione sottoperiostea e determina anche una maggiore porotizzazione della corticale: entrambi questi fattori contribuiscono all’apparente diminuzione della BMD in queste sedi.
Sporadiche, ma sempre più frequenti segnalazioni suggeriscono che teriparatide e ormone paratiroideo 1-84 contribuiscono alla più veloce riparazione delle fratture e risolvono positivamente casi di pseudofratture o di fratture con monconi non uniti.
Le dosi terapeutiche raccomandate sono 20 µg per teriparatide e 100 µg per l’ormone intatto. In termini molari la dose di ormone paratiroideo 1-84 somministrata è più del doppio di quella della teriparatide. La più prolungata permanenza in circolo della molecola intatta e la maggiore dose somministrata giustificano la maggiore incidenza di ipercalcemia che si registra nei pazienti trattati con PTH 1-84.
Dopo ogni singola iniezione sottocutanea di farmaco si registra un aumento della calcemia che raggiunge il massimo dopo 4-6 ore e che ritorna al valore basale dopo 16-24 ore. Abitualmente le ipercalcemie sono di modesta entità e non è richiesto un monitoraggio costante di questo parametro. Tuttavia particolare attenzione deve essere posta nei pazienti anziani, cardiopatici, specie in trattamento con digitale. In questi pazienti, specie se trattati con ormone intatto, è opportuno valutare, almeno una volta, la calcemia anche dopo 6 ore dall’iniezione e non solo il giorno successivo, come viene abitualmente raccomandato, per valutare l’entità del picco ipercalcemico raggiunto e gli eventuali effetti sul ritmo cardiaco.
Anche la calciuria è spesso aumentata ed abitualmente asintomatica, tuttavia è opportuno ce questi farmaci vengano usati con cautela nei pazienti con urolitiasi attiva o recente.
L’uso di questi peptidi anabolici è controindicato nei pazienti con turnover osseo accelerato, ipercalcemia, neoplasie maligne con metastasi ossee o che possono frequentemente complicarsi con metastasi ossee, precedente radioterapia, insufficienza renale severa (clearance creatinina < 30 ml/min).
I disturbi collaterali più frequenti sono rappresentati da dolori muscolari diffusi, talora con carattere di crampi, nausea, cefalea. Talora si può osservare un’ipotensione ortostatica transitoria, della durata da pochi minuti a 1-2 ore, che abitualmente non richiede la sospensione della cura.
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